2
Mattino
Luce naturale: il concetto infinito, credo sia inesorabile. In un punto, ovvero: in un’assenza di dimensione della tua coscienza, ti prende, e succede presto, succede quando ti accorgi della possibilità dell’assenza. Succede presto, prestissimo, è uno di quei ricordi in cui non sapresti quantificare la massa dei tuoi organi interni. Eppure, non credo ci sia da averne paura. Un accenno di sospetto, ecco, magari quello, ma semplicemente, credo, si tratta di accettare l’impossibilità di alcune definizioni, alcune come questa, alcune cose che non puoi o non vuoi conoscere. Chiudere, con consapevolezza, quindi con viltà, davanti alle neuroscienze, i miei occhi da primate, credo sia qualcosa di importante per ricollocare l’anatomia terminale della mia colonna vertebrale in un’orizzonte di ragionevolezza. Riconoscere dei limiti, oppure inventarli. C’è una definizione, della possibilità dell’assenza, che non risiede nell’immutabile mortificazione della persona, ma che la colloca come istante, passaggio di stato. Quando mi colloco oltre, fosse anche un passo, quel passaggio di stato, forse lì mi trovo in un’assenza di dimensione in cui risiede una delle possibili definizioni del concetto infinito. È strano pensarla così, perché è un passaggio che può essere agevolmente dissimulato da una formula semplice come: Ma questa è un’altra storia, e si dovrà raccontare un’altra volta. Assenza, voglio dire: come contrazione dell’universo, o di un granello di sabbia, cui segue però un’immediata, fertile e disordinata, nuova espansione. Resurrezione, che non è infinito, ma un po’ gli somiglia. Resurrezione, credo non sia un caso, come istantanea ricongiunzione con ciò che sfugge alla tua manipolazione. Sono fin qui riassumibile, a me stesso, come quella anatomia terminale, ancora sanguinolenta, lenita da un blando eppure redolente disinfettante, la cui mobilità si ridefinisce in base a quello che di volta in volta è in grado di percepire come manipolabile, di volta in volta sceglie di imparare a manipolare. Ecco, io qui rinuncerò deliberatamente a molto. Come tutti. Solo che, a differenza di molti, lo sto facendo presente, e invito altri a scegliere e inventare quello che rimarrà implicito, o, più facilmente, irrisolto.
La Sovrana dei Desideri, ancora e per sempre bambina, era gravemente malata. Vennero convocati i cinquecento medici più saggi del Regno perché trovassero una cura per lei. La stanza del trono, che in giorni più lieti era stata dimora abituale della Sovrana, ora brulicava delle loro grottesche fisionomie…
Non ha febbre, non ha dolori.
...e la poltrona regale vuota, cui nessuno osava avvicinarsi, stava lì, al centro…
Solo, sta esaurendo il suo tempo.
…come a mormorare quell’assenza, quasi fosse un altare di quell’assenza…
Non possiamo dare, non possiamo perché non c’è, una spiegazione, non c’è.
…era costretta a letto, gravemente malata, e i cinquecento medici più saggi del Regno…
Non possiamo comprenderla. Se è una malattia, di certo non è qualcosa che possiamo comprendere.
…i cinquecento medici erano lì per visitarla, per trovare una cura alla sua misteriosa malattia.
Non fa febbre, non ha dolori. Solo, sta esaurendo il suo tempo...
…si sentiva bisbigliare tra la folla.
I primi quattrocentonovantanove medici più saggi del Regno erano accorsi al suo capezzale, ma tutti loro fallirono. E così, fummo colti dal tumulto dell’insurrezione, e l’impeto, e la totale mancanza di rigore, ruppero le nostre file. I miei compagni pensarono che fosse buio. I miei compagni non riuscivano a immaginare qualcosa che poteva uccidere tutto quello che era attorno senza emettere il minimo rumore. Ma l’ultimo, tra tutti, del Regno, il più saggio, aveva qualcosa da dire. Ascoltate il cinquecentesimo medico.
Compagni, invocate l’eroe, implorate il suo aiuto.
Sia la tua giovinezza a salvarci.
Sia il tuo smarrimento a salvarci.
Invocate l’eroe, compagni, e implorate il suo oblio.
Sia la tua resa a salvarci.
Sia il tuo tradimento a salvarci.
Compagni, invocate l’eroe, imploratelo e spogliatelo delle armi.
Sia la tua solitudine a salvarci.
Sia il tuo lutto a salvarci.
Interrogate l’eroe, compagni, chiedetegli cosa vuole, e se risponderà con gli occhi al cielo, un’alzata di spalle, se allora vedrete gli occhi dell’abulia, allora sarà pronto a partire. Dategli un oggetto che gli permetta di non dimenticare, un feticcio di cui ignori le prerogative.
L’ultimo, tra tutti, del Regno, il più saggio, così ai suoi compagni. Allora fummo colti dal tumulto dell’insurrezione, e l’impeto, e la totale mancanza di rigore, ruppero le nostre file. I miei compagni pensarono che fosse buio.
I miei compagni non riuscivano a immaginare qualcosa che poteva uccidere tutto quello che era attorno senza emettere il minimo rumore: il Nulla.
Il Nulla minacciava il Regno dei Desideri. Tutti erano convinti che le due sciagure fossero legate. La Sovrana dei Desideri, così, incaricò il cinquecentesimo medico. Il cinquecentesimo medico, tra tutti, del Regno, il più saggio, di cercare un piccolo selvaggio senza futuro, di pregarlo di trovare una cura. Mentre si bardava, mentre indossava la sua catana mezza vuota di scorte per il lungo viaggio, a testimonianza della sua abnegazione, così ai suoi compagni:
Un feticcio di cui ignori le prerogative, un grande amuleto d’oro diviso in tre cieli concentrici. Deve tentare di dirgli qualcosa, ma in una lingua a lui sconosciuta.
Il primo cielo, il più grande, sia ornato con incisioni sui quattro punti…
Oriente.
…una torre, il cui punto più alto si perde nei cirri, grande quanto…
Occidente.
…un’interra città sommersa dalla bruma…
Meridione.
…cauli prostrati, una terra bituminosa, precaria…
Settentrione.
…sul punto di crollare, un’enorme soglia si leva.
Così non dimenticherà, così potrà fare ciò che vuole. E nel cuore, acque scroscianti: senza ricordi, dicono, nessuno può entrare.
L’ultimo, tra tutti, del Regno, il più saggio, così si congedò dai suoi compagni in contrappasso, e fu allora, solo allora che furono colti dal tumulto dell’insurrezione, e l’impeto e la totale mancanza di rigore ruppero le loro file. Il Nulla. Il Nulla minacciava il Regno dei Desideri. Tutti pensarono che fosse buio, ad attenderli, tutti erano convinti che le due sciagure fossero legate, ma nessuno poté trovare una cura per lei. La Sovrana dei Desideri, ancora e per sempre bambina, incaricò il cinquecentesimo medico. Il cinquecentesimo medico, tra tutti, del Regno, il più saggio, di cercare un piccolo selvaggio senza futuro, di pregarlo di trovare una cura. Un piccolo selvaggio senza futuro, giovane, smarrito, arrendevole, solo, inerme, accettò. Il cinquecentesimo medico, tra tutti, del Regno, il più saggio, donò a un piccolo selvaggio senza futuro un feticcio rinserrato da iscrizioni indecifrabili, l’amuleto d’oro, che conferiva grande potere, ma che non doveva essere usato. Il cinquecentesimo medico raccomandò a un piccolo selvaggio senza futuro di abbandonare le sue armi, di partire da solo.
E io, che ascoltai quello che ebbe da dirmi, ecco, ora tutto quello che riesco a fare è perdere il controllo e dimenarmi su questo trono che passa da parte a parte i miei muscoli, e le nocche che scuotono il bordo di un piano inclinato: spia, curiosa incursione familiare in un luogo che per il resto sento totalmente ostile. Mi accorgo che sono l’unico appiglio, quelle fitte, quei ferri, unico elemento genericamente noto, sommerso da questo odore di disinfettante che dovrebbe, ne sono quasi certo, essermi familiare, e che non mi rassegno tuttavia a pensare come mio. Dietro di me stringate, denim scuro, girocollo nero, vita inchiavardata, orologio al polso, capelli rasati. Niente di speciale. E speciale, contraddittoria, è una parola che descrive un movimento, va da sé, ambiguo, di integrazione secondo Tradizione e secondo Natura riversate l’una nell’altra. Lui però, vita inchiavardata, danza. Niente di speciale: è una danza, la sua, che in un certo senso si posiziona sul limite dell’irrilevanza e che proprio in quel limite trova il suo spessore. Potrebbe danzare per sempre. Almeno così sembra a me. E intanto le rotule fanno sobbalzare la piattaforma delle mie pose insicure: parlo speditamente, senza efficacia, le parole indugiano inumidite sulle labbra, e inumidito il mio caffè, i tuoi polpastrelli, le tue unghie, la contrazione complessa e misurata, incolpevole di pudore e di pudicizia scandalo, che detonano i canali del mio organismo. Sanguigni stelle, petali e boccioli si lasciano appena indovinare dalle mie maniche, comunque abbastanza perché una piccola incisione liberi il reticolo dalla pressione. Simile a fogli di lamiere, se ne genera una scaglia di bile, e tutto sembra gravitare intorno al suo viscoso fluire, privo, in apparenza, di terminazioni. Qualcuno mi guarda, è inevitabile, da qualche tavolo di distanza, beve e ride alla mia. Io non mi accorgo, non mi accorgo di nulla se non di lemmi sciolti, dismessi, riacquisti e riallacciati, sempre meno preservati dalla logica di un giudizio lucido e consapevole. Le tue labbra, senza assiduità, tentano di piegare il nervosismo, la durezza del tuo vincolo di schiavitù, di cui a volte ridi: tanto è l’amore che sei in grado di dare al Regno, anche quando questo sembra non averne, per la sua Sovrana, e per quanto non sia molto, io mi ostino a non accorgermi di niente se non del tempo passato ad aspettare un sortilegio che invano mi illudo si sia appena compiuto. Non è altro che un’assorta incursione di quello stesso senso di cattività che ora tu cogli come un attributo imposto da terzi. Da me, ad esempio. E adesso sì, sorridi con complicità, forse anche del mio garbo, identico a quello di chissà chi altri; forse solo perché io ti ho sorriso, e per un attimo quel viso, il mio, si fa strada fra gli altri in putrefazione per riprendere da capo quel percorso fatto di assenze progressive, che riguarda sempre più la mia memoria, di-me-memoria, in luogo del mio corpo. Allora, la flessione delle tue labbra diventa flessione di tutto il corpo tuo, ormai compromesso, ma parzialmente consapevole, che, seppure con grazia, smette infine di dissimulare sé stesso.
mèdici – p.m. [lat. medÄcus]. – Mendelssohn parlava, e le sue parole si disperdevano nella stanza come se non riuscissero a trovare un punto d’appoggio, fluttuando nell’aria, deboli e leggere, come un pensiero mai del tutto afferrato. Un tempo, disse, le malattie si mostravano chiaramente. Ogni infezione, un nemico visibile, ogni dolore, un ostacolo che potevi curare con il giusto rimedio. Un segno sulla pelle, una febbre che arde. Ma ora… ora ci troviamo davanti a qualcosa che non possiamo toccare, qualcosa che non possiamo comprendere. Nessuna febbre, nessun dolore. Solo una presenza che si nasconde nell’assenza.