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Scomporre il corpo

  • Immagine del redattore: Lino Testa
    Lino Testa
  • 1 set 2024
  • Tempo di lettura: 4 min

Identità e paradossi della carne



Mi trovo a contemplare il mio corpo non semplicemente come un'entità biologica, ma come un nodo d’intensità e divergenza, dove si intrecciano flussi e correnti di una narrazione in continuo divenire e, perciò, perennemente incompleta. Qui, il corpo si configura non come un mero strato di carne, ma come una complessa rete di desideri e impulsi, campo di forze in cui si sovrappongono e si confrontano prospettive sulle strutture socio-culturali in un tessuto semiotico e contestuale in perpetuo mutamento, rivelando una sorta di "utopia del corpo" che si manifesta come una dimensione di potenzialità non ancora realizzata, ma costantemente insidiata dalla contingenza del reale.

Da qualche tempo a questa parte, il mio corpo è ridotto a un simbolo di appropriazione vorace, quasi a configurarsi progressivamente come un oggetto esposto, reificato, destinato a incarnare le logiche di visibilità e spettacolarizzazione. Le odierne egemonie, benché diversificate nella loro pluralità, rivelano un'insidiosa convergenza, sollecitandomi a esaminare in che modo questa metamorfosi silente ridefinisca i contorni del mio essere. Un tempo, forse mai davvero vissuto, ma immaginato, auspicato; ecco, in quel tempo il corpo si configurava come il luogo primario e privilegiato di un'autenticità ontologica; ora, in questo tempo – che è forse sempre stato – appare lontano, un’ombra distaccata, un attributo di valore comunicativo, più che un terreno di esperienza vissuta; e la prospettiva di quell’utopia si dissolve progressivamente sotto il dominio di chiassose aspettative che lo trasfigurano in un semplice veicolo di obbedienza.

Il mio corpo, intrappolato nella morsa di questo dispositivo, piegato da un processo di normalizzazione che ne abolisce l’eccentricità, sacrificandola sull'altare di una "mascolinità" ed “eterosessualità" domesticate nella loro apparente eppure secolare ordinarietà, quanto nel loro emergente scandalo. L'ordine culturale, macchina unitaria, schiaccia la singolarità in una forma replicabile: l'irripetibile si dissolve, l'esperienza vissuta scompare, lasciando dietro di sé un prodotto forgiato secondo gradi di desiderabilità.

La costante pressione verso la conformità normativa non solo rimodella la percezione esterna del mio corpo, ma altera anche l'intima consapevolezza della mia identità corporea. L’idealizzazione di una qualsivoglia conformità può generare in ogni tempo una disconnessione tra l’esperienza intima e la proiezione pubblica del sé; ma ora, in questo tempo – che è forse sempre stato – il corpo si trasfigura in un simulacro di conquista compulsiva, si plasma in risposta a direttive culturali e intellettuali.

Quindi, la mia sessualità; come intessuta, si dispiega nel corpo come un campo di forze dove una dialettica – fittizia – tra desiderio e repressione, mette in atto, nei fatti, un continuo processo di dislocazione e marginalizzazione. Intendo dire: è certo che la liberazione sessuale possa servire come chiave per decrittare il mio “vero” desiderio? O non è forse possibile che la progressiva riduzione della sessualità a bene di consumo costringa l’esperienza che ancora posso fare del mio corpo in un piano di senso che schiaccia ogni palpito sotto il peso di categorie merceologiche, ogni aspirazione ad abitare uno spazio singolare nella brutalità di una riduttiva concretezza?

E poi, il mio corpo come terreno di conflitto politico e sociale. Me ne accorgo in ritardo, questo lo so. Merleau-Ponty: il corpo come medium attraverso cui percepisco il mondo. Quindi: il mio corpo come ricettacolo simbolico delle ingiustizie circostanti. Ovvero: la mia aspirazione verso quell’utopia del corpo sembra vacillare proprio quando riconosco che, piuttosto che essere uno strumento di sfida contro le strutture oppressive, il mio corpo stesso è palcoscenico di disuguaglianze e tensioni sociali. Squilibrio tra idealizzazione e realtà.

Eppure, mi ostino a coltivare una visione idealistica del corpo, e credo che sia una buona cosa, se la mia corporeità è ancora in grado, in qualche modo, di darsi forma di resistenza. Antonin Artaud, Pina Bausch: una resistenza che può trovare sostanza attraverso l'agire, trasformando la tensione tra il corpo reale e quello idealizzato in un atto di rivelazione. Perché esiste una dimensione spirituale che non è possibile trascurare. Talvolta vedo il mio corpo come simbolo di redenzione e di peccato, e sento che proprio questo potrebbe essere essenziale per comprendere il mio posto, lo spazio che occupo, la mia dislocazione. Un aspetto spirituale che è possibile esplorare nella pratica artistica, in un agire che non comporta certe conseguenze, che funziona come un laboratorio per le oscillazioni tra la mia esperienza intima e una corporeità che è mezzo di conoscenza e connessione con il trascendente, in cui quell'utopia è forse ancora perseguibile.

Emerge allora una questione fondamentale riguardo alla possibilità di una coesistenza tra un corpo afflitto da dolore personale – un tormento interiore che si manifesta attraverso autoaggressioni e alterazioni dell'equilibrio metabolico – e un corpo esposto tramite l'atto performativo. Di nuovo, Merleau-Ponty: il mio corpo, pur immerso in rituali distruttivi e segnato da crisi esistenziali continue e progressive, si trasforma nel mezzo attraverso cui interpreto il disordine interiore in un linguaggio corporeo comprensibile agli spettatori. In questo processo, il dolore non è solo un aspetto del mio vissuto individuale, ma diventa anche una chiave per un accesso collettivo, implicito quanto si vuole, ma concreto, alla manifestazione di esperienze perlopiù taciute. Tutto questo, senza rinunciare a una visione dell’atto esposto come forma di liberazione, in un percorso che in questo senso diventa ambivalente: da un lato, il corpo si configura come una forma di terapia, un rifiuto dell’angoscia; dall'altro, lo spazio esposto amplifica e riflette quel lamento sottinteso, proiettandolo verso il pubblico e trasformandolo in un'esperienza condivisa.

Di nuovo, Antonin Artaud e, di nuovo, Pina Bausch: la performance diventa un modo per manifestare e condividere il dolore in una dimensione estetica, cercando al contempo connessione e comprensione, e con questo interrogando la definizione stessa di cos’è o può essere dimensione estetica. Allora, il dolore avvertito si configura unicamente come un limite, una barriera opaca e implacabile, oppure può trasformarsi in una risorsa inaspettatamente cruciale per la mia espressività? Immaginate questo dolore non come un semplice fardello, ma come una sorta di energia tumultuosa, una forza quasi anarchica che, nella sua anarchia, si impegna a tessere nuovi spazi immaginativi.

In un certo senso, questa ambivalenza sembra avere la qualità di un paradosso, che lascia sospesa una domanda di crescente complessità.

 
 
 

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