Tempo, ritmo e struttura. I
- Lino Testa
- 6 set 2024
- Tempo di lettura: 6 min
Aggiornamento: 30 ott 2024
1. Il silenzio della forma

Questo scritto segna l'inizio di una serie dal titolo Tempo, ritmo e struttura, e già in questa denominazione si apre una tensione: cos'è il tempo, e in che modo entra in gioco quando parliamo di questioni formali? È davvero possibile tracciare una linea netta tra il ritmo che struttura una forma artistica e il tempo che scorre, o si tratta piuttosto di una sovrapposizione, di un differimento? Nel corso di questa serie, proporrò una riflessione che metterà a confronto le nozioni di tempo, forma e contenuto, nella consapevolezza che ogni tentativo di fissare questi concetti in modo definitivo sarà sempre già segnato da un movimento di continua revisione. Le arti performative non fanno altro che suggerire, nel loro continuo gioco con la temporalità, la natura instabile di ciò che si manifesta come struttura.
In questo primo capitolo, ci avvicineremo al concetto di bellezza nell’estetica classicista, indagando come la forma venga concepita come un ideale universale e trascendente, posto al di là del tempo e delle imperfezioni del mondo sensibile. Ma proprio in questa aspirazione all'oltre-tempo, alla purezza, si apre uno scarto che destabilizza ciò che si propone saldo e incontestabile. Cos’è che si sottrae in questa tensione verso la perfezione formale? Quali tracce restano, al di là della perfezione stessa, che rivelano il non detto, l'inesauribile?
Nell’estetica classicista, il "bello" si configura come un ideale che si impone, quasi con necessità. È l’eco di un ordine che pretende di essere universale, un’armonia che resiste alle imperfezioni del mondo sensibile, affermandosi come principio trascendente, al di sopra del tempo e della storia. Parlarne, dunque, significa confrontarsi con ciò che sfugge alla temporalità, con una forma che sembra stabilita una volta per tutte, immune da trasformazioni. L’arte, in questo quadro, diventa disciplina, un’espressione che ripete un modello già dato, non superabile senza rischiare di perdere, insieme alla forma, anche l’essenza della bellezza. Eppure, questa insistenza sulla forma rivela qualcosa che non è mai del tutto neutro: dietro l’apparente purezza si cela sempre un significato.
Nella sua Critica del giudizio, Immanuel Kant affronta questa questione, proponendo il giudizio estetico come disinteressato: il "bello", quindi, non è subordinato a scopi pratici, non serve ad altro se non a esistere come tale. Tuttavia, questa purezza formale nasconde un’ambiguità, poiché in essa si avverte un movimento di esclusione. La forma, per Kant, diventa il luogo privilegiato di questa purezza, una struttura che suscita piacere e si offre alla contemplazione. Ma il contenuto? Qui si annida una separazione, un’assenza. Il contenuto sembra arretrare, ridotto a un’astrazione, qualcosa che resta nascosto dietro la forma, non toccandola né contaminandola. Ma è davvero così? Il distacco tra forma e contenuto si rivela meno netto di quanto sembri: il contenuto non scompare, si traveste, si maschera nella forma stessa.
Nell’arte classica, questa separazione diventa una regola. Le opere dell’antichità greca e romana ne sono esempio: qui la forma perfetta incarna un ordine naturale e un’armonia universale. Il contenuto sembra annullarsi, subordinato alla perfezione formale. Tuttavia, anche qui, ciò che è considerato "bello" porta con sé tracce di quel contenuto che tenta di sfuggire, che si nasconde dietro il rigore della forma, ma che non è mai completamente assente.
Eduard Hanslick, nel suo Il bello musicale, porta questa tradizione verso i suoi limiti estremi, mettendo in discussione la distinzione tra forma e contenuto, soprattutto nella musica. Per Hanslick, la musica non ha bisogno di rappresentare nulla al di fuori di se stessa, non imita né trasmette emozioni esterne. Il contenuto, che nella tradizione classica era collocato al di fuori della forma, è già presente nella musica stessa, in quanto la forma musicale è il contenuto. La melodia, l’armonia, il ritmo, infine la loro disposizione in una progressione temporale, non veicolano un significato che si trova altrove: sono già espressione di un contenuto che ad un tempo si cela e si rivela nella forma. La separazione tra forma e contenuto, dunque, è una costruzione artificiale, una maschera che non regge di fronte alla realtà dell’esperienza musicale.
Hanslick, nel tentativo di sottrarre la musica a ogni contenuto esterno, finisce per scoprire un nuovo tipo di contenuto, un contenuto che coincide con la forma stessa. La bellezza musicale, per lui, è pura forma, ma una forma che non è vuota: è piena di significato, di quel contenuto che, anziché essere escluso, si ritrova dentro la forma stessa, come una presenza costante che non può essere ignorata.
Tanto l’estetica classicista quanto la visione di Hanslick condividono un presupposto: che il "bello" possa essere concepito come qualcosa di universale, valido per tutte le epoche e culture. Eppure, questa pretesa di universalità si rivela problematica, poiché nasconde una serie di esclusioni e opposizioni. Kant, nella Critica del giudizio, sostiene che il piacere estetico aspira a essere condiviso universalmente, come se il bello fosse qualcosa che tutti dovrebbero percepire allo stesso modo. Ma questa aspirazione all’universalità non è priva di contraddizioni, poiché esclude molteplici voci da questa concezione univoca di bellezza.
E anche Hanslick, nella sua concezione del "bello musicale", sembra seguire un percorso simile. Per lui, la bellezza risiede nella forma, nelle strutture sonore, senza bisogno di riferirsi a qualcosa di esterno. Tuttavia, anche questa apparente autonomia della forma è una costruzione, poiché la musica, come ogni arte, non è mai isolata dal suo contesto culturale. Le forme musicali, per quanto pure possano sembrare, portano con sé tracce di significati, storie, segni che non possono essere separati dal loro tempo e luogo.
A questa visione, Benedetto Croce oppone una critica profonda, sottolineando l’artificiosità della distinzione tra forma e contenuto. Nella sua Estetica come scienza dell'espressione e linguistica generale, Croce sostiene che l’arte, nella sua essenza, è espressione e non può mai essere scissa dal suo contenuto espressivo. La forma, per lui, non è un contenitore vuoto, ma è già intrisa di contenuto. È la manifestazione tangibile di un’intuizione interiore, un’intuizione che si dà nella forma stessa. Non esiste, per Croce, una forma neutra, distaccata dal contenuto: ogni opera d’arte è un atto creativo in cui forma e contenuto si fondono in un’unità inscindibile.
Croce respinge anche l’idea di un "bello" universale, trascendentale. Per lui, ogni opera d’arte è legata a un contesto storico e culturale specifico. La bellezza non è un concetto fisso e immutabile, ma un’esperienza individuale, che emerge dal rapporto tra l’artista e il mondo circostante. L’universalità del bello non può essere astratta dal contesto, poiché ogni opera esprime qualcosa di unico, legato al vissuto dell’artista e alla sua capacità di dare forma a questa esperienza.
In definitiva, Croce critica la visione dell’arte come pura forma, priva di funzione espressiva. Per lui, l’arte è un atto di conoscenza, un’espressione della vita interiore dell’artista. Separare la forma dal contenuto significa svuotare l’arte del suo significato. Ogni opera è un atto di comunicazione, e la sua bellezza risiede nella capacità di esprimere emozioni, idee, pensieri. La forma, senza contenuto, è un simulacro vuoto, privo di sostanza. L’arte non "dice", ma "mostra": e ciò che mostra non è separato dalla forma, ma incorporato in essa, come una presenza nascosta che si svela attraverso l’atto stesso dell’espressione.
In questo modo, Croce ribalta la concezione tradizionale dell’estetica classicista: l’arte non può essere ridotta a una questione di perfezione formale o tecnica. La critica d’arte, per Croce, deve andare oltre l’apprezzamento formale, penetrando nell’essenza dell’opera, cogliendo l’intuizione che l’ha generata. L’arte è espressione di vita, di storia, di una sensibilità che sfugge alle definizioni rigide e che, nel suo manifestarsi, neutralizza ogni tentativo di imprigionarla in categorie statiche.
Nel prossimo capitolo, La mimesi incompiuta, sposteremo il nostro sguardo dalla forma come entità autonoma e autosufficiente a una concezione più fluida, più ambigua. La forma non è mai isolata, mai davvero pura: essa imita, traduce, si confronta con ciò che è altro da sé. In questa riflessione, da Aristotele a Nelson Goodman, esploreremo come la tradizione artistica abbia negoziato continuamente il rapporto tra forma e realtà, mostrando che anche le espressioni più astratte e geometriche non sono mai del tutto prive di contenuto. Ogni linea, ogni forma è attraversata da tracce del mondo che cerca di rappresentare, nascondendo e rivelando allo stesso tempo il suo legame con il reale. Questo movimento tra naturalismo e astrazione, due strategie apparentemente opposte, si mostrerà come un modo di interrogare la complessità del mondo, dove ogni rappresentazione, ogni forma, è già abitata dall'altro, da ciò che tenta di escludere.
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